E’ tornata la politica. Forse

politica fiducia meloni

Com’è quella storia del divide et impera? Locuzione latina che non pare abbia una paternità precisa, ma che viene spesso citata per rappresentare situazioni in cui le divisioni favoriscono chi, in un simile contesto, domina e governa. Appunto, governa. E’ ciò che sta capitando alla “sorella d’Italia” Giorgia Meloni, che si trova a capo di una coalizione all’apparenza unita, dentro la quale però covano i dissidi su tante questioni. A fronte di questo c’è un’opposizione frazionata, dispersa in mille contrapposizioni, funzionali ad affermare primogeniture e prese di posizione che, per paradosso, invece di mettere in difficoltà il centrodestra lo aiutano.

La doppia fiducia votata alla Camera e poi al Senato legittima il nuovo esecutivo sotto il profilo istituzionale, ne stabilisce la coesione; ma non poteva essere in altro modo all’indomani di un risultato elettorale che, come ha affermato Matteo Renzi durante il suo scoppiettante intervento a Palazzo Madama, obbliga lo schieramento vincente “a governare”. E a recuperare un’intesa quanto meno di facciata, che la scelta dei ministri e l’elezione del presidente Ignazio La Russa nella seconda carica dello Stato, la presidenza del Senato, avevano clamorosamente messo in discussione. L’elettorato di centrodestra non accetterebbe mai che l’ampia apertura di credito concessa a Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia venisse vanificata fin dall’inizio. Non sarebbe accettabile a prescindere. Così che anche Silvio Berlusconi abbia corretto il tiro e sancito fedeltà all’intesa, benché a modo suo, rivendicando i risultati, suoi personali e dei suoi governi soprattutto in campo internazionale, e ricordando l’intuizione, peraltro incontestabile, di aver dato vita ventotto anni fa all’unione di centrodestra. Insomma, fine delle diatribe?

Mica tanto, a parte il merito e le priorità dell’azione di governo, i problemi aperti, i modelli per approcciarli e risolverli, rimangono da definire i posti di sottogoverno, i vice ministri e i sottosegretari. Una cinquantina di poltrone da distribuire per acquietare gli appetiti dei partiti. Nessun dubbio: l’accordo si troverà. E’ giocoforza. Il punto è che non si riveli un accordo indotto dalle circostanze, che a lungo andare lasci conseguenze, scorie che finirebbero per minare incisività e necessaria concretezza. Sul versante interno e su quello europeo. A cominciare, guarda caso, dai differenti giudizi sottotraccia sulla guerra in Ucraina e, manco a dirlo, su Vladimir Putin.

Detto questo, c’è chi ritiene che l’esito del voto e della “concessa” fiducia parlamentare abbia permesso di ritrovare la politica. Dopo un decennio di governi infarciti di tecnici, dopo presidenti del Consiglio privi dell’avallo delle urne, dopo un lungo periodo di delegittimazione dei partiti stessi, abbiamo – si dice – ritrovato la politica. Che è sinonimo di confronto, persino di scontri (dialettici), di primati della parola su temi che necessitano di approfondimenti parlamentari e non solo. La politica che abbia anche la P maiuscola: se mai l’avesse è ancora da capire. In fondo, i nodi da risolvere sono prioritariamente politici, riguardano la competizione tra i partiti, nella maggioranza e nelle balcanizzate opposizioni. Interessano il loro futuro e, quindi, il gradimento da recuperare o da conservare rispetto ai cittadini. Con un obiettivo preciso: la leadership, meglio, il potere. Questo ci pare essere il vero, forse unico problema politico. Dal quale tutto può discendere. Perché non basta il collante dello stare insieme per spegnere i fuochi. No, che non basta.

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