Fagnano, Vanzini e l’inferno di Dachau: “Ho vissuto l’orrore. Ma non voglio vendetta”

FAGNANO OLONA – Due parole ricorrono costanti nella testimonianza di Enrico Vanzini: freddo e fame. Danno il ritmo dell’orrore crescente raccontato dal 99enne ritornato a Fagnano Olona in questi giorni (oggi lunedì 25 aprile riceverà la cittadinanza onoraria) paese che gli ha dato i natali.

Parlare della guerra

Ieri, domenica 24 aprile, in un’aula magna gremita Vanzini ha dato testimonianza della “sua” Seconda Guerra Mondiale: dalla “cartolina di precetto” arrivata che non aveva ancora 18 anni sino alla deportazione nel campo di sterminio di Dachau. Vanzini è l’ultimo italiano appartenente al Sonderkommando ancora vivente. Le sue parole sottolineano come di guerra dovrebbero parlare soltanto coloro che l’hanno provata che il tema è così umano nella sua disumanità da non poter diventare argomento da social (o da bar) senza che vi sia almeno un velo di vergogna.

Il tradimento dei comandanti

Vanzini testimonia tutto. Da quel vizio molto tipico dei vertici italiani in qualunque ambito di cedere alla codardia perchè, mentre il figlio del presidente americano Roosevelt moriva sulle coste di Normandia guidando gli sbarchi del D-Day, dopo l’8 settembre “i nostri comandanti, i soli che sapevano cosa stesse succedendo, non ci dissero nulla – ha spiegato Vanzini – Scapparono lasciandoci lì”. Lì è in Grecia dove il 99enne fu mandato dopo che un’appendicite acuta aveva fatto saltare la sua partenza per la campagna di Russia.

Il rastrellamento in Grecia

“Il 13 settembre arrivarono i tedeschi”. Iniziano i rastrellamenti. Vanzini si ritrova con tutti gli altri su treni “con 10, 15 vagoni bestiame dove ci ammassavano senza acqua o cibo”. Sessanta persone stipate per 15 giorni nel lungo viaggio sino a Monaco. “Gli ufficiali tedeschi ci svuotavano le borracce davanti agli occhi mentre noi pativamo la sete. Ogni mattina nei vagoni c’era qualcuno che moriva”. La prigionia lo vede costretto a lavorare in un’azienda bellica tedesca. Poi il bombardamento devastante e la fuga insieme ad altri due compagni.

Il freddo e la fame

Fuga che finisce con l’arresto e la condanna a morte in seguito commutata nella deportazione a Dachau che poi è la stressa cosa. Nel lager a Vanzini viene assegnato il numero di matricola: 123. 343. “Lo chiamavano in tedesco – racconta il testimone dell’orrore – Io non capivo. Quando rispondevo con qualche minuto di ritardo erano 30 frustate”. Fame e freddo. Vanzini riceve il vestiario: cappellino, casacca, pantaloni di tela leggerissima per difendersi dall’inverno rigido. “C’era già la neve che cadeva”, spiega. Le baracche erano con letti a castello su 4 piani: “Nessun giaciglio, nessuna coperta. La prima notte ho capito come gli altri facevano per sopravvivere: dormivano abbracciati per cercare di scaldarsi. Lo feci anche io: il mio compagno morì nel sonno. Il mattino dopo fu buttato nudo all’esterno della baracca. Nudo perchè la sua uniforme sarebbe andata a qualcun altro”.

Il Sonderkommando e i forni di Dachau

Vanzini si ammala in infermeria viene “curato” a frustate. Lo salva “un russo – racconta – lavorava nelle cucine delle SS riusciva a sottrarre un batuffolo di cotone con dell’alcol per medicarmi. Sparì al sesto giorno: mi salvò la vita”. E’ un racconto che testimonia l’assenza di pietà da parte delle SS sempre più giovani ed arroganti. Sino alla selezione per entrare nel Sonderkommando. Ovvero le “squadre” di internati nel lager addette a forni e camere a gas. “Non dimenticherò mai l’odore dei forni. Le ossa che ancora sembrava si muovessero dopo che i corpo venivano issati sulle grate a decine, sino a 150 al giorno, e bruciati. Mai dimenticherò il rumore dei nervi che ardono”.

Il pane e il rispetto

Ci sono altre due cose, tra le tante, che Vanzini non potrà dimenticare. “Una contadina tedesca di 85 anni, tutta vestita di nero, sembrava mia madre, che mi diede un pezzo di pane e per questo venne fucilata. Perché i civili tedeschi cercavano di aiutarci rischiando la vita. Non mangiai mai quel pezzo di pane nonostante la fame. Mi sarebbe sembrato di mangiare un pezzo del cuore di quella donna. Lo portai a casa e lo diedi a mia madre che lo portò in chiesa come dono”.

Oggi non provo rancore

Il secondo ricordo indelebile è quello del “carro armato americano che arriva nel giorno della liberazione. Ci curarono, ci diedero da mangiare. E mi riportarono a casa”. Nel giorno del rastrellamento Vanzini pesava 86 chili. Alla madre, che all’inizio non lo riconobbe, fu restituito con un peso di 29 chili e 800 grammi. C’è nei ricordi di Vanzini una miscela tra storia mondiale e storia individuale: la testimonianza dell’orrore assoluto si mischia alla memoria della fisarmonica che passò al figlio, della divisa americana che ancora conserva con la quale fu vestito alla liberazione, degli incubi di corpi bruciati che lo avrebbero perseguitato per anni. “Sette mesi a Dachau furono come 30 anni. Oggi sceglierei di morire davanti alla possibilità di tornarci. Eppure se mi trovassi davanti una di quelle SS, uno dei miei aguzzini, oggi non gli porterei rancore“. Si vince così: non è perdono a tutti i costi. Da una cosa così si esce scegliendo la vita.

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