VISTO&RIVISTO Il politicamente corretto ha ucciso James Bond

minchella james bond

di Andrea Minchella

VISTO

NO TIME TO DIE, di Cary Fukunaga (Regno Unito- Stati Uniti 2021, 163 min.).

James Bond era una certezza. O quasi. Ma adesso il “politically correct” ha contaminato anche l’agente segreto più maschio, indipendente e immortale della letteratura mondiale.

Se cerco una puntuale e vera analisi sulle discriminazioni di genere o razziali, se desidero una potente riflessione sulla società moderna e sulle sue contraddizioni, andrò a cercare il cinema di Chloe Zhao o di Ken Loach, o dei nostri Mordini o Guadagnino. Ma se voglio una fotografia plastica del male, del bene, del pericolo di morte, dei “gadgets” che ci salvano la vita o delle guerre fredde che continuano anche quando noi non ce ne accorgiamo, allora corriamo tutti a vedere l’ultima avventura di James Bond. E poco importa se oggi, a differenza degli anni settanta, sappiamo molte più cose sui servizi segreti e sui loro punti deboli e sull’impossibilità di ridurre il male del mondo ad un cattivo che per motivi personali decide di minacciare l’intero pianeta.

Il film sull’agente 007 da più di mezzo secolo arriva puntuale e riassume, in maniera spettacolare e ottimista, le paure e gli incubi che la società contemporanea possiede. E anche questo venticinquesimo capitolo riesce a cristallizzare, con una previsione sconcertante, quella nefasta pandemia che sarebbe arrivata solo dopo poco tempo la fine delle riprese. E proprio a causa del Covid l’uscita del film è stata posticipata più volte rendendo l’intera produzione un rischio economico senza precedenti. Ma grazie al contenimento dell’epidemia i cinema stanno riempiendosi di nuovo, e James Bond è tornato ad essere l’eroe, più o meno, che tutti aspettavamo, anche se a quanto pare non è riuscito a salvare il mondo dal virus più pericoloso e subdolo che ci sta tenendo sotto scacco da quasi due anni.

La storia è interessante e fa venire i brividi per la disorientante similitudine tra il virus del film, in realtà un biorama contenente nanobot che si diffondono come un virus, e il virus che continua a mietere vittime in tutto il mondo. L’aspetto più sconvolgente di “No Time To Die” è la peculiarità del biorama: esso infatti, in base ad una codificazione specifica, diventa pericoloso e si trasmette con semplici gesti come una carezza o un bacio. La similitudine con il Coronavirus, e con la sua facilità di trasmettersi, mette sicuramente in difficoltà lo spettatore che non può non ritrovarsi proiettato ad un anno e mezzo fa quando, in piena crisi, diventava pericoloso e proibito anche un piccolo gesto di vicinanza con parenti o amici.

Bond, ancora con la faccia dura e il corpo teso di Daniel Craig, passa da Matera alla Jamaica, da Cuba a Londra con la sua solita disinvoltura che lo rende immortale e affascinante. Ma questa volta deve fare i conti con tutta una serie di ostacoli che arrivano dritti dalla realtà che ci circonda. La pensione, la sostituzione con una donna, la paternità e la fine dell’immortalità entrano a gamba tesa e permeano l’intera vicenda. Bond diventa agli occhi dello spettatore una persona normale, uno come noi. E questo, credo, sia l’errore più grande che la corazzata Broccoli, Barbara Broccoli è la figlia del primo produttore di Bond del 1962, abbia commesso. Trasformare un eroe, che ci fa vivere una vita tranquilla e che vive tra lusso e belle donne, in un uomo che deve fare i conti con la parità dei sessi e con la paternità di una bellissima bambina avuta con la meravigliosa e capacissima Léa Seydoux è politicamente corretto ma artisticamente delittuoso.

Bond, quando Fleming ha pensato a lui, era la personificazione della certezza e della sicurezza che uno Stato Occidentale può e deve assicurare alla sua gente. Bond ha la capacità e le competenze per fare bene il suo lavoro. Se Bond diventa una persona fragile e mortale, allora vuol dire che nessuno più può proteggerci e salvarci. E dunque usciamo dal cinema con una paura e un’angoscia in più di quando siamo entrati.

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RIVISTO

AGENTE 007- LICENZA DI UCCIDERE, di Terence Young (Dr. No, Regno Unito 1962, 109 min.).

Un capolavoro perché a basso costo e con un attore, Sean Connery, che non era conosciuto e che, dunque, ha potuto facilmente imprimere nelle nostre menti, per sempre, la faccia e il corpo di uno dei personaggi più influenti e potenti della cinematografia degli ultimi sessant’anni.

Il romanzo di Fleming è scomposto e ricomposto in maniera magistrale. Bond e Connery diventano indissolubilmente una cosa sola e rendono la saga di James Bond unica e irripetibile. Da rivedere per capire da dove tutto è cominciato.

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