La “Strage di Gallarate”, 500 anni fa uno degli episodi più tragici in città

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GALLARATE – Ricorre venerdì, 8 ottobre, i 500 anni da uno degli episodi più cruenti e tragici vissuti in città nell’ultimo mezzo millennio. Si tratta della “Strage di Gallarate” (Gallarati clades), quando il borgo venne invaso, devastato e saccheggiato dalle bande di soldataglie coinvolte nelle guerre e negli scontri per il dominio sul Ducato di Milano, che affliggevano i primi decenni del Cinquecento. A ricordare l’anniversario è l’assessore alla Cultura Massimo Palazzi. 

La strage di Gallarate

Massimo Giuseppe PalazziIl fatto è narrato dal notaio gallaratese Bernardino Ferni (precisamente Bernardino Brusatori detto il Ferni) nell’opera Naufragium Italicum. «E’ opportuno sottolineare che questa ricorrenza coincide con il triste anniversario ventennale del disastro aereo di Linate, altra tragedia che ha colpito così duramente il Gallaratese e i suoi abitanti a distanza di quasi cinque secoli», sottolinea Palazzi, ricordando una celebre frase di Pietro Tenconi risalente al 1999: «L’importanza del ricordare sta anche in questo: nel mostrare che di fronte alla fatica della vita non siamo soli». Conclude l’assessore: «Le sofferenze patite dai nostri antenati non potranno mai alleviare il dolore di chi ha perduto gli affetti più cari nelle tragedie recenti, ma possono aiutarci a capire che siamo parte di una Comunità che ha il dovere e il diritto di ricordare, per trovare il coraggio di proseguire».

Gallarati Clades

Di seguito l’antico testo tradotto dal latino che narra la tragica vicenda:

<Strage a Gallarate> Frattanto (per affrettarci di passaggio ad altri fatti) innumerevoli bande di Milanesi profughi, i cui comandanti erani stati valorosi sopra tutti, tali Italobarbaro, Giacomo Antonio e Matteo Crivelli, che superavano in crudeltà lo stesso Tiberio, e diversi altri, i cui nomi al presente non ricordo, con volto impetuoso e animo furente il lunedì otto ottobre del medesimo anno all’ora all’incirca penultima del giorno circondano rapidamente Gallarate, borgo per niente disprezzabile nel Seprio: e contro di esso minacciano stragi, incendi, un saccheggio sistematico, e altri crimini di guerra con ingente clamore, affinché si arrendano senza esitazione alla loro mirabile discrezione e onestà.

Ma i cittadini, tenuto prima fra sè consiglio, scorgendo perfettamente i costumi oltre modo gentili dei profughi, e l’allettante veleno, simile ad una pestilenza contagiosa, imperterriti all’udire il rumore (come in proverbio si suole dire) di numerose foglie di fico, trascurando le minacce, alla fine con la libertà di Brizeno denunciarono apertissimamente al nemico di voler sperimentare mali estremi, piuttosto che  dare il proprio assenso alle loro subdole arti: ciò fatto seguì una rissa fra le due parti nello scorrere circa di una sola ora a lato del ponte di San Francesco di quello stesso luogo; dopo che furono o feriti o uccisi una trentina di profughi, alla fine nel crepuscolo gli assedianti con nuova arte e dolo entrano nella città come sconvolti da furie impazzite.

< Imprese dei profughi milanesi contro Gallarate > Ma inorridisco, son preso da paura tremo: vacilla l’animo, barcollano i piedi, tentenna non poco la memoria mentre sto per fare parola degli obrobrii da loro compiuti a questa città, mentre sto per raccontare quale fu la ferocia di una guerra turbolenta, e ciò che parimenti accadde ai vinti: tutti infatti (per passare in rassegna soltanto i fatti più leggeri) i giovani, e i vecchi, e tanto maschi quanto femmine, tanto bambini che cresciuti, tanto votati alla religione che al secolo, tanto dementi che claudicanti, tanto colpevoli che innocenti circondano, sgozzano come bestie, trucidano, catturano, torturano: estorcono denaro, deflorano vergini, spogliano rapacissimi senza distinzione i chiostri delle Vestali, i templi degli Dei e infine le abitazioni di tutti: fanno impeto brutalmente su tutti e sulle fortune di tutti come delle arpie: tutto è gravido di lutto e di sangue.

Ma di certo raccontando questi fatti non poco ci affligiamo, poiché non possiamo raffrenare le angosce smisurate dell’animo: così infatti come è arduo porre Tigellino dove sorgono le gioie, così è cosa di massima fatica affondare nel silenzio quando opprimono i dolori. Anzi molti mali senza ragione troppo molesti sopraggiungono ai mortali, che se si riproporranno all’attenzione, e se per caso saranno letti da coloro che in questi sbagliarono, accoglieranno la correzione, e notando con quale piede zoppo camminano come ammoniti da parole altrui, immetteranno se stessi quali uomini nuovi in una migliore condizione di vita, per non essere annoverati fra quelli che il Salvatore nostro scacciò dal tempio con le cordicelle promessa che ottimamente ed alquanto graziosamente fu dai medesimi mantenuta con un patto (come si dice) locrese: oltre a ciò la maggior parte degli abitanti circostanti, che pativano la povertà nei campi con il salario della loro manodopera, eccitati da questa tumultuosa sedizione, preferirono alla loro ingrata fatica far bottino in città: essi, e tutti gli altri si alimentavano da un siffatta rovina.

Ma che più? Chi potrebbe descrivere la strage di quella notte, chi potrebbe descrivere a parole i lutti, o potrebbe uguagliare i travagli alle lacrime? Senza dubbio in quella tempesta il borgo subì mali tanto numerosi e tanto grandi, da non poter essere descritti dalle invitte penne né di Sallustio Crispo né di Tito Livio.

Finalmente questi profughi alla terza ora della notte seguente dopo avere svuotato alla perfezione tutta quanta Gallarate, temendo una fortissima bufera incredibile ed improvvisa, allontanatisi da là pernottano a Cardano distante non lontano dalla città verso il Ticino, e da qui quasi sempre per alquanti giorni più volte e più volte, dico, ancora nuovamente saccheggiano il borgo, ma alla fine niente d’altro fecero al medesimo: in effetti forse sarebbe stato meglio non occuparsi ulteriormente di questa Camerina.

Alla scoperta di Gallarate. Tra totem illustrativi e il sito creato dagli studenti

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