Malpensa, la fine del Bridge e il futuro del territorio

Con la fine del Bridge, cioè il trasferimento di tre mesi del traffico aereo di Linate in brughiera, finiscono anche le preoccupazioni del territorio. Eccessive, dovremmo dire alla luce dei fatti: Malpensa e la sua vasta area di riferimento hanno più o meno retto all’impatto. Preoccupazioni peraltro legittime, perlomeno alla vigilia dell’operazione, quando si temeva una sorta di sfracello operativo e ambientale in scia all’aumento di velivoli, passeggeri e auto da e per l’aeroporto. Ciò non significa che non ci siano stati problemi, che la mole di attività in aggiunta non si sia in qualche modo fatta sentire a tutti i livelli, ma, per quanto sappiamo e visto, non ha prodotto lo sconquasso ipotizzato da molti. Un bene, dunque? Per l’economia del Gallaratese e delle città vicine, probabilmente sì. Possiamo pensare agli alberghi, per dire di un settore che ha tratto benefici dal Bridge. E possiamo pensare al sistema Malpensa nel suo insieme, che esce promosso da questa specie di prova sul campo, che presuppone un contesto in crescita senza che l’indotto collassi. Base, il Bridge, per programmare i prossimi interventi in una visione complessiva, che non trascuri nulla delle esigenze vere e tenga conto delle indicazioni di questo che si può definire a pieno titolo, con linguaggio tecnico, uno stress test.

Attenzione, però. Gli eccessi di entusiasmo rischiano di distorcere la realtà. La quale richiede, ora più di prima, di restare vigili rispetto all’inarrestabile sviluppo aeroportuale. Dal Bridge sono arrivate diverse risposte, insufficienti a garantire un futuro di sostenibilità a tutto tondo. Questi tre mesi hanno segnato una svolta positiva per Malpensa in una prospettiva progettuale appunto di crescita. Un arco temporale, i novanta giorni, comunque circoscritto. A cui si è fatto fronte con un eccezionale dispiegamento di mezzi, di risorse e di disponibilità collettiva. Sea in testa a tutti, i Comuni del cosiddetto sedime aeroportuale subito dopo. Sea per la fase organizzativa, i Comuni per aver sopportato ad esempio un traffico di scorrimento come mai era accaduto in passato. Di conseguenza, per aver subito i relativi disagi, compreso il rumore e, ultimo ma non ultimo, l’inquinamento.

Fenomeni negativi che lasciano tracce, e che tracce, sul territorio. A cui si riservano, in ambito istituzionale e pubblico, le briciole. Palazzo Marino è il padrone di Sea e, quindi, di Malpensa. Milano beneficia degli utili milionari prodotti dalla società di gestione; ai centri del Gallaratese che ospitano lo scalo, non arrivano neanche gli zero virgola della massa di denaro che introita il capoluogo. Tutto a norma di legge, per carità. Come, a norma di legge, sono i ristorni di tasse e balzelli imposti a passeggeri e compagnie aeree, insignificanti per le amministrazioni locali, bottino pieno per lo Stato. Vecchio refrain, si dirà. Ma anche questione irrisolta, che forse non si vuole nemmeno risolvere.

Il Bridge ne ripropone l’attualità in una visione futura, di impatto sempre più importante e poco considerato dagli enti superiori. E dalla politica, che guarda agli interessi milanesi o addirittura della capitale, prima di ogni altro. Dimenticando, sempre per restare agli esempi, che c’è bisogno di implementare e riqualificare la rete viaria, cominciando dalla famosa o famigerata superstrada 336. Che occorre un’azione di salvaguardia ambientale mirata e incisiva. Che non si può far finta di ritenere Malpensa un’esclusiva di Milano, in barba a coloro i quali ne pagano il prezzo più salato. Dopo tutto, quando si esce dal Terminal 1, il primo cartello stradale che si incontra avverte che ci si trova a Ferno, non a Milano. Un paradosso, ma che racchiude in sé ottime ragioni per rivendicare finalmente considerazione.

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