VISTO&RIVISTO Quando la realtà è più assurda dell’assurdo

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di Andrea Minchella

VISTO

DON’T LOOK UP, di Adam McKay (Stati Uniti 2021, 145 min., Netflix).

Calma. Un respiro profondo. Non arrivate a conclusioni affrettate. Adam McKay, dopotutto, è un brillante autore comico. La sua collaborazione artistica con Will Ferrell la dice lunga sulla vera natura di questo gigantesco autore. Possiamo cadere in errore se guardiamo gli ultimi due film, “La Grande Scommessa” e “Vice”, pensando che McKay sia un regista serio e deciso a raccontarci la verità in maniera analitica e puntuale. In realtà la capacità unica e preziosa del regista statunitense è proprio quella di mostrarci qualcosa di terribile utilizzando un linguaggio e una grammatica dissacranti, per rendere più efficace il pugno in pancia che ci assesta ogni volta che guardiamo un suo film.

L’assurdità delle vicende che vengono raccontate nelle sue pellicole assumono un significato simbolico e ci proiettano verso una realtà più vera e sincera di quanto sia raccontata da certi film pretenziosi e retorici. L’analisi delle situazioni che si verificano nelle pellicole di AdamMcKay ci costringono, spesso, ad una vera e sconcertante presa di coscienza del mondo che ci circonda, che è più complesso e maligno di quanto non si possa immaginare. McKay, dunque, in questo “Don’t Look Up” sfodera tutta la sua capacità espressiva e scenografica per confezionare un vero e proprio “cortocircuito” assurdo e cinico che ispeziona e racconta il nostro passato più prossimo.

La cometa raccontata, infatti, è la pandemia che ci ha duramente colpito. Gli scienziati Leonardo di Caprio e Jennifer Lawrence sono la schiera di scienziati che è emersa con la pandemia e che ha sviluppato una coscienza televisiva e mediatica che ha messo a dura prova i rapporti delicati tra scienza, opinione pubblica e istituzioni. Le contraddizioni assurde che viviamo in questi giorni di pericolo ancora lontano dall’essere definitivamente scongiurato sono le stesse contraddizioni che Adam McKay imprime sulla pellicola assurda e schizofrenica del suo “Don’t Look Up”.

Guardando questo film, paradossale, comico e surreale, riusciamo ad avere un’idea più chiara dei meccanismi, diabolici e scellerati, che governano la società moderna, la sua proiezione “social” e la politica. L’arrivo imminente di una cometa grande come una metropoli deve fare i conti con una disattenzione endemica della società, sempre più attenta alla dinamica delle immagini piuttosto che alla sostanza delle notizie. Anche l’estinzione prossima dell’intera umanità deve essere declinata secondo i canoni ritmici e scenografici di una generale e collettiva “sindrome iconografica” di cui il mondo contemporaneo sembra soffrire da tempo ma i cui effetti si sono visti in maniera più chiara e più lineare con lo scoppio della pandemia.

Se la si guarda con questa idea, l’opera di McKay assume un senso ed un significato più completo. Perché il ritmo, il montaggio e alcune parti della sceneggiatura risultano, a volte, eccessivamente artificiosi trasformando l’intera narrazione come, apparentemente, un assurdo senza senso né significato. È finito, probabilmente, il tempo in cui la realtà che ci circonda viene raccontata con ansia e claustrofobia. Cercare di smussare gli angoli di un’atmosfera cupa e asfissiante può essere utile per fornirci uno stimolo in più per una riflessione sincera e articolata sulla deriva probabilmente irrimediabile di una società sempre più distratta e sempre più connessa ad una realtà virtuale.

Questo spazio virtuale, come viene ben raccontato nella pellicola, è sempre più occupato da grandi aziende informatiche che fanno sentire il loro peso, ormai, anche sulla politica e sulle sue scelte che interessano sempre più persone. Bezos che va nello spazio non è solo il vezzo di un miliardario, ma può essere il passo verso una sempre più dominante, e pericolosa, posizione del privato sulla vita pubblica di uno stato o di una nazione. Se l’interesse è privato, difficilmente coinciderà con quello comunitario. Idea semplice quanto sconcertante che sta alla base di questo originale e appassionante film prodotto da Netflix, concorrente e “nemico” del Bezos-Ryalance presente nel racconto. Corto circuito, appunto.

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RIVISTO

SINDROME CINESE, di James Bridges (The China Syndrome, Stati Uniti 1979, 120 min.).

Molto retorico ma allo stesso tempo angosciante e cupo. La paura, di quegli anni, della potenza nucleare e della sua possibile reazione non controllata diventano il filo conduttore di uno dei “disaster movie” più acuti e meglio realizzati.

Fonda e Douglas, poi, forniscono all’intera pellicola una potente dose di fascino e “sex-appeal” che non guastano in un racconto asfissiante e catastrofico. Da rivedere e riprovare una tensione “antica” ma sempre capace di farci tremare al momento giusto.

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