VISTO&RIVISTO Un prezioso viaggio nella sofferenza dell’anima

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di Andrea Minchella

VISTO

NOMADLAND, di Chloé Zhao (Stati Uniti 2020, 107 min. Sky Primafila).

Finalmente Nomadland. Come ciò che ci racconta, la distribuzione della pellicola è stata tumultuosa e difficile, a causa della pandemia. Questo aspetto rende ancora più potente il racconto di Zhao.

A primo impatto “Nomadland” sembra un altro film, certamente di qualità, che ci descrive la società americana, la sua crisi, quella deflagrante del 2009, e le contraddizioni che da sempre sembra far convivere sotto lo stesso cielo. E se ci si ferma a questa lettura, il giudizio rischia di essere solo sufficiente e non particolarmente adeguato. Ma durante la visione la brava Zhao compie un piccolo miracolo: la storia che ci racconta non è una denuncia, l’ennesima, nei confronti di una società complessa, certo, ma malata e spietata; il racconto a cui assistiamo, invece, è una profonda analisi sull’anima di una donna.

Il racconto che Zhao ci regala è una intima e preziosa descrizione della sensibilità e delle emozioni della dura e gigantesca Fern. La pellicola ci porta nelle viscere più nascoste dei pensieri di una donna che decide volontariamente di intraprendere la strada che percorre con il suo Van. Fern, interpretata dalla sola attrice che avrebbe potuto interpretarla ovvero la scavata e notevole Frances McDormand, sembra non essere stata costretta ad unirsi alle migliaia di nomadi che la crisi economica del 2009 ha creato da un giorno all’altro. Fern, che dopo la crisi si ritrova senza lavoro e senza il suo amato marito, portato via da una malattia, decide consapevolmente di intraprendere un viaggio nella sua anima. E “Nomadland” non è altro che un minuzioso ed emozionante resoconto di questo suo continuo e perpetuo movimento senza una vera destinazione.

Tra lavori precari e sotto pagati in un’“Amazon” che sembra la nuova Chiesa americana e in aziende agricole che trasformano la materia grezza in materia pronta per la civiltà delle grandi città, Fern si muove con il suo Van bianco in cui ripone e custodisce gli oggetti che le ricordano di essere viva, e che la tengono in collegamento con la sua vita passata. Fern è una gitana perché ha deciso di esserlo. Si percepisce, durante la narrazione di questa vicenda tanto ancestrale quanto evocativa, una latente e regressa volontà di Fern di non volere appartenere alla società moderna ed ai suoi riti. La donna Fern si sgancia, assumendosi tutte le responsabilità, dal concetto rassicurante di donna legata ad un lavoro sicuro e ad una famiglia che si ricompone per il giorno del ringraziamento. Fern sposta la linea dell’esistenza in un contesto difficile e quasi incomprensibile dove la condivisione e la mutua assistenza diventano automaticamente, quasi, i codici di comunicazione unici e necessari tra le migliaia di persone che hanno deciso, o sono stati costretti, a vivere come Fern. Come i pionieri che hanno costruito l’America, oggi questi nomadi, con i loro sacrifici e le loro vite senza valore, stanno assistendo un’economia malata, quella americana e quella mondiale, senza chiedere nulla indietro.

McDormand prima, scegliendo il libro-inchiesta della giornalista Jessica Bruder da cui è tratta la sceneggiatura, e Zhao dopo, che ha scritto, diretto e montato “Nomadland”, riescono a fissare con una capacità sublime uno stato dell’anima di ognuno di noi. Tutti noi, infatti, abbiamo sofferto o stiamo soffrendo. Il primo pensiero che ci viene in mente è, di solito, scappare. Fuggire dal pensiero della sofferenza. Vorremmo essere nomadi in noi stessi. Vorremmo rifugiarci in una dimensione più semplificata. E Fern, in fondo, rappresenta questo.

Qui risiede, credo, la grandezza di questo importante e profondo progetto cinematografico. “Nomadland” è il diario di bordo di un viaggio che tutti, prima o poi, sono costretti a fare. Non importa quanto lungo sia questo vagabondare, o quanto lontano ci porti questo muoverci, l’importante è sempre rimanere connessi con ciò che siamo o con ciò che siamo stati, come Fern fa rimando sempre collegata all’idea di ciò che è stata. Un film poetico e intimo che vale la pena conoscere e comprendere.

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RIVISTO

WILD, di Jean-Marc Vallèe (Stati Uniti 2014, 115 min.).

Bello. Intenso. Mitografico. Che riguarda tutti noi. Il bravo Vallè e l’attenta Reese Witherspoon prendono la storia di Cheryl Strayed e la trasformano in un riuscito viaggio nell’anima fragile e dilaniata di una ragazza cresciuta troppo in fretta e che ha sofferto per troppo tempo.

Come una preghiera laica, il viaggio che la giovane Cheryl decide di intraprendere, nella natura americana selvaggia, desolata ed immensa, deve guarire e rafforzare la sua anima gracile e lacrimante a causa di una perdita prematura. Ancestrale e sentimentale.

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