Il processo a Stefano Binda e il pendolismo giudiziario

novik binda pendolismo giudiziario
Lidia Macchi e Stefano Binda

di Adet Toni Novik

L’altalena tra la sentenza di primo grado e quella di appello appartiene alla fisiologia del processo. Poco comprensibile però è, per i non addetti ai lavori, come si possa passare da una sentenza di condanna all’ergastolo all’assoluzione per non aver commesso il fatto (l’omicidio di Lidia Macchi nel 1987). È il caso di Stefano Binda per il quale, come riportano i quotidiani, la Cassazione ha confermato il verdetto assolutorio di appello dichiarando inammissibili i ricorsi del procuratore generale e della parte civile e condannando quest’ultima al pagamento delle spese processuali (anticipo subito che questa non è una volontà punitiva ma la conseguenza necessaria, per legge, del rigetto del ricorso).

È interessante sapere che, proprio per evitare lo sconcerto tra i cittadini che inevitabilmente segue verdetti contrastanti, molti Stati non conoscono un giudizio di appello. Da noi invece il preminente valore riconosciuto alla libertà personale degli imputati ha ritenuto necessario prevedere due gradi di giudizio di merito, accettando il rischio di sentenze contrastanti.

novik binda pendolismo giudiziario
Adet Toni Novik

In linea di massima, i contrasti tra le sentenze sono tipiche dei processi indiziari. Quei processi cioè in cui non c’è una prova diretta a carico di un imputato, quale può essere testimonianze, confessione, prova del DNA, ma ci sono elementi indiretti che, complessivamente valutati, indicano che un soggetto si è reso responsabile di un reato. Si chiama prova logica. Facciamo un esempio. Tizio viene trovato ucciso in casa. Se dalle indagini è accertato che in precedenza Tizio aveva litigato con Caio e questi aveva minacciato di ucciderlo; Caio era stato visto uscire dalla casa di Tizio poco prima dell’ora dell’omicidio; in casa di Caio viene trovato il coltello sporco del sangue della vittima, allora possiamo dire che ci sono gravi indizi per ritenere che Caio sia l’autore dell’omicidio. Se invece l’unico elemento è che Caio ha litigato con Tizio e ha minacciato di ucciderlo, è escluso che questo solo indizio sia sufficiente per una condanna perché non esiste la regola secondo cui chi minaccia di uccidere poi uccide veramente. Processi indiziari tipici sono stati i casi ultimi di Garlasco e Perugia e gli esiti contrastanti dei processi si sono visti. Anche in questo caso ci sono ordinamenti che non riconoscono i processi di questo tipo. Da noi, il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale non consente di fare differenze.

Per comprendere cosa sta a monte dei giudizi antitetici nel caso Binda, dobbiamo considerare come si perviene alla decisione. Possiamo rappresentare il processo come una piramide: man mano che ci si avvicina al terzo grado di giudizio la base si restringe. Il giudizio di primo grado è stato un enorme contenitore. Il processo è stato estremamente complesso, anche per il tempo passato dall’omicidio. Si sono sentiti testimoni, periti, consulenti, organi di polizia giudiziaria, sono state fatte perizie complesse e di lunga durata. I giudici hanno assorbito una enorme quantità di dati, molti tra loro contrastanti. Al momento della decisione (si tratta di una Corte di assise composta da due giudici professionali e sei giudici popolari, posti su un piano di assoluta parità: trattandosi di un collegio di numero pari (8) nel caso non si formi una maggioranza, non prevale il voto del presidente, come erroneamente è stato riportato in molte trasmissioni televisive (a mio parere, da abolire), ma la tesi più favorevole all’imputato), questi giudici hanno dovuto esaminare tutte le informazioni ricevute e selezionare quelle rilevanti, filtrandole con intelligenza, sagacia e sapere giuridico. Alla fine di questo accidentato percorso, essi hanno ritenuto che tutti gli elementi acquisiti rendessero certa la colpevolezza di Stefano Binda. E lo hanno condannato alla massima pena.

In certo modo più “semplice” è stato il compito del giudice di assise di appello. Depurato dell’inutile, il compito dell’appello è stato quello di mettere in contrapposizione la sentenza di primo grado con le critiche mosse dai difensori e dall’accusa. Il delimitato quadro ha consentito ai giudici di rivedere il materiale del processo e rifare all’indietro tutto il percorso per verificare se le valutazioni dei primi giudici fossero o meno corrette. Nella loro ampia, lucida, dettagliata decisione i giudici di appello hanno puntualmente indicato, confutando uno per uno gli indizi posti a base della condanna, le ragioni per cui il giudizio sulla condanna non era corretto; in più, hanno affermato con decisione che, al contrario di quanto ritenuto in precedenza, l’alibi fornito da Binda per il giorno del delitto era vero (e non falso), e che la prova del DNA su reperti piliferi rinvenuti sul corpo della ragazza dopo l’esumazione, logicamente attribuibili a chi l’aveva uccisa, non erano dell’imputato. Con conseguente assoluzione.

La Cassazione, dichiarando inammissibili i ricorsi, ha riconosciuto che la sentenza di appello non presentava insufficienze argomentative, era logica e coerente nel suo sviluppo. In tal modo, ha reso definitiva l’assoluzione di Binda (di cui ho apprezzato il comportamento dopo l’assoluzione: provato dalla lunga carcerazione, ma sereno e privo di rancore). Restano le scorie di questo processo, di cui ho letto con sorpresa su un quotidiano nazionale, e l’amara considerazione che, a questo punto, un assassino è ancora in libertà.

Varese, Binda «Non ha ucciso Lidia Macchi». Fine dell’incubo giudiziario

novik binda pendolismo giudiziario – MALPENSA24