VISTO&RIVISTO L’amore per il cinema e Olivia Colman non bastano

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di Andrea Minchella

VISTO

EMPIRE OF LIGHT, di Sam Mendes (Stati Uniti- Regno Unito 2022, 119 min.).

Anche Sam Mendes decide di mettere in scena la sua adolescenza, i suoi ricordi, e tutto ciò che lo ha fatto innamorare del cinema e che lo ha fatto diventare uno dei più poliedrici registi contemporanei. Anche Sam Mendes tenta di tradurre in immagini le emozioni e le sensazioni che lo hanno travolto quando era un ragazzo in un’Inghilterra, quella dei primi anni ottanta, sprofondata in una crisi endemica che ha contagiato la cultura, il lavoro, la convivenza sociale e la capacità di un popolo di sognare e di sperare.

Il regista inglese parte da un cinema abbandonato dell’isola di Thanet e ricostruisce il set del suo “Empire of Light” ambientando la storia nel Kent, a Margate, dove il cinema Empire diventa il fulcro delle vite e delle vicende di Hilary e del suo nuovo collega Stephen. Mendes, anche grazie al suo fedele direttore della fotografia Roger Deakins, inserisce la vicenda in una piccola comunità silenziosa e quasi bidimensionale, dove il mare e la terra sembrano creare una continuità intima e sussurrata. La cittadina sembra indefinita e l’unica traccia di colori forti risiede nel cinema Empire, una volta multisala e anche sala da ballo, in cui Hilary è vicedirettrice ma si occupa di molte altre attività, dalla vendita dei biglietti alla pulizia dei “popcorn” dopo lo spettacolo.

L’Empire, con il suo velluto rosso e gli inserti dorati, sembra un tempio laico in cui ogni persona può, per qualche sterlina, concedersi alcune ore di svago in cui il desiderio e la magia diventano un tutt’uno che rende possibile ciò che la nostra mente è in grado di sognare. Mendes racconta una storia non autobiografica ma iconografica e mitologica. Perché inserisce la sceneggiatura di “Empire of Light, scritta interamente dallo stesso Mendes, nella sua Inghilterra degli anni ottanta in cui le manifestazioni per rivendicare un lavoro, i primi scontri degli “skinheads” di matrice razzista, e la rigidità estrema del governo Thatcher facevano da sfondo ad una rivoluzione culturale, soprattutto nella musica, che ha lasciato tracce indelebili negli artisti che in quegli anni si stavano formando.

Ma c’è di più. Forse troppo. Sam Mendes non si contiene, e decide di inserire nella sua storia molti, troppi, elementi che alla fine confondono e, quasi, stordiscono lo spettatore. L’amore per una persona più piccola, l’amore per una persona che viene “aggredita” dalla società a causa del colore della sua pelle, la malattia mentale che stravolge completamente i connotati anche fisici di una persona, la crisi economica e la recessione di un paese potente e imperialista come era l’Inghilterra; questi sono i temi toccati dal bravo Sam Mendes che traccia una narrazione bulimica in cui a fatica incastra la storia d’amore tra una donna cresciuta e che ha ormai poche possibilità di riscatto, e un giovane ragazzo che invece ha tutta la vita d’avanti. Mendes carica eccessivamente una storia preziosa e sussurrata rendendola fragile e in alcuni tratti indefinita. La voglia di raccontare troppo indebolisce un soggetto inedito che avrebbe potuto in maniera originale raccontarci della crescita culturale del giovane Sam Mendes.

Olivia Colman qui da dimostrazione di essere la più grande attrice vivente. La sua interpretazione brilla su tutta la narrazione, anche dove la pellicola si indebolisce. Hilary ci colpisce dritti al cuore perché la Colman è in grado di esprimere nel suo volto la sofferenza della solitudine e della malattia con una capacità ineguagliabile.

Anche se non autobiografico, “Empire of Light” è una sorta di diario di bordo del regista britannico che ha avuto davvero una madre malata che lo ha dovuto crescere da solo. Ma l’intento nobile si scontra con una narrazione che ha cercato di includere troppo, sbiadendo irrimediabilmente la storia originale di Hilary e Stephen a favore di una contestualizzazione storico/sociale fortemente ed inutilmente connotata e rimarcata.

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RIVISTO

AMERICAN BAUTY, di Sam Mendes (Stati Uniti 1999, 121 min.).

Un’ America malata e perversa. Sam Mendes, al suo primo film, confeziona un racconto puntuale e sincero sulle pulsioni pericolose che ognuno di noi può avere.

Senza giudicare né etichettare, il bravo regista ci regala un’analisi sconcertante sulla deriva delle passioni nascoste e mai affrontate. Con un Kevin Spacey magistrale. Da rivedere.

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