Dalle navi fenicie al cavallo di Troia: indagine su Omero a Varese Archeofilm

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VARESE – Il cavallo di legno con cui gli achei conquistarono la città di Troia era in realtà un nave, modellata su quelle dei fenici, allora massimi dominatori del mare: è questa la tesi elaborata da Francesco Tiboni, archeologo marittimo che, tra le sue varie immersioni vanta all’attivo anche l’area dell’Isolino Virginia. Il documentario dedicato alla sua intuizione, e all’indagine condotta dalle rovine della collina di Hissarlik in Turchia all’isola di Malta, ha aperto la terza serata del festival Varese Archeofilm, che nelle altre proiezioni in programma ha approfondito la storia dell’antica città romana di Narbo Martius e l’enigma delle statue di Cabeço da Mina.

Il poeta parlava a marinai e pescatori

Come ha evidenziato “Il mistero del cavallo di troia”, nei poemi omerici non c’è una descrizione precisa di ciò che costruirono i greci per introdursi nella città di Priamo: un fatto strano per il poeta, solitamente prodigo di particolari. L’unico indizio erano le parole “durateos ippos”, un cavallo fatto di fasciame, di tavole per le navi. E come ha sottolineato Tiboni, dal momento che Omero si rivolgeva ai marinai e pescatori della sua epoca, comunicava quindi a loro un concetto immediatamente comprensibile, che non richiedeva ulteriori spiegazioni. Tra i vari indizi che hanno orientato la ricerca sono stati la concretezza dell’archeologia sperimentale, con la riproduzione concreta delle imbarcazioni dell’epoca, le raffigurazioni delle “ippoi”, caratteristiche navi fenicie così chiamate per le teste equine poste a prua e a poppa, fino allo studio del relitto della nave affondata al largo di Uluburun, Turchia, negli anni prima dell’inizio della guerra e destinata a uno scambio di doni tra sovrani.

Piero Pruneti e Francesco Tiboni

Il ritorno a una trasmissione orale della cultura

Perchè i troiani decisero di portare all’interno della città la nave che i greci avevano lasciato sulla spiaggia? Perché all’epoca, oltre che di un segno di resa, rappresentava anche il tradizionale tributo che lo sconfitto doveva al vincitore. E, essendo stato dedicato ad Atena, la prassi era consegnare l’offerta al tempio che apparteneva alla divinità. Alla tesi di Tiboni sono stati contrapposti secoli di iconografia con protagonista un cavallo, fino all’“equus ligneus” dell’Eneide di Virgilio: come però replica Tiboni, successivamente alla caduta di Troia si è però verificato un gap nella trasmissione della cultura, tramandata per via orale, per tornare alla forma scritta, con l’idea ormai consolidata di una forma equina nel settimo secolo a.C.. Inoltre nell’economia al tempo dell’assedio miceneo il cavallo non aveva l’importanza che ricoprirà invece nei secoli seguenti.

La quotidianità dell’Iliade e dell’Odissea

«Oltre al momento della prima intuizione, l’emozione più grande è riportare alla luce il quotidiano in sintonia con l’epoca omerica», ha raccontato Tiboni dialogando con Piero Pruneti, direttore di Archeologia Viva. «E il pensiero che, quando ho scelto di fare l’archeologo, forse non ho sbagliato davvero. Per questo mestiere sono fondamentali la curiosità e una continua ricerca della verità, anche contro “i flutti avversi”». E, sebbene le testimonianze che via via emergono diano sempre più sostanza alla tesi che il cavallo fosse in realtà una nave, «se arrivano nuovi dati sono aperto alla smentita domani mattina. Ma ciò che affermo si basa sui quelli che sono disponibili oggi». Il sogno è «trovare una nave integra dell’Età del bronzo, l’anello mancante tra l’esplorazione del mare del Mesolitico e la navigazione vera».

“La figlia di Roma” e le misteriose steli menhir

I riflettori si sono poi spostati su Narbo Martius, prima città fondata da Roma e prima capitale della Gallia. Il viaggio nel tempo attraverso gli occhi di una giovane donna ha condotto lungo il canale d’ingresso del più grande porto di allora nel Mediterraneo Occidentale, fino ai vari ritrovamenti mostrati dagli archeologi Raymond Sabriè e Corinne Sanchez. Gli scavi di un’estesa villa romana e un’iscrizione scoperta a Ostia che hanno dimostrato il rapporto privilegiato che c’era tra l’odierna Barbonne, “La figlia di Roma” sede di importanti personalità testimoniate da statue e rimandi a Ercole, e il luogo d’origine dei suoi fondatori. Chiusura in Portogallo con i complessi megalitici di Cabeço de Mina e le sue misteriose steli tra tardo Calcolitico ed età dei metalli: associate ad antenati mitici o al culto dell’eroe, per le loro forme antropomorfe e il motivo ricorrente degli occhi abbinati all’assenza della bocca ricordano quelle presenti in Sardegna e Lunigiana.

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