Mensa dei poveri, la sentenza fa luce sul sistema Gallarate: un “circolo di amici”

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MILANO – La sentenza di primo grado pronunciata oggi, lunedì 2 ottobre, dal collegio del Tribunale di Milano presieduto dal giudice Paolo Guidi chiude l’ultima grande indagine per corruzione portata avanti dalla Procura meneghina. Quando, nel maggio 2019, arrivarono i primi arresti eccellenti per l’inchiesta Mensa dei poveri qualcuno parlò di una nuova Tangentopoli.

Lo spartiacque

Di fatto tra riti alternativi e dibattimento quasi il 70% degli imputati è andato assolto. E i giudici con la sentenza pronunciata poco dopo le 16 hanno tracciato una grande linea spartiacque almeno per quanto riguarda il filone d’inchiesta gallaratese, che individuava l’ex plenipotenziario di Forza Italia Nino Caianiello (arrestato nel 2019 che ha patteggiato a 4 anni e 10 mesi per 28 capi di imputazione) quale vertice di un sistema di corruzione e incarichi pilotati al fine di “arricchire” le tasche sue e dei suoi fedelissimi.

Funzionari contro il sistema

Un “sistema Gallarate” esisteva ma era tutto legato, da anni, ad una certa politica. Che ha visto l’attuale sindaco di Gallarate Andrea Cassani (Lega) completamente estraneo ai fatti (è stato assolto così come anche chiesto dall’accusa) e che invece “risiedeva” in una frangia di Forza Italia, quella in capo all’associazione Agorà, di cui Caianiello era presidente onorario e che per i Pm altro non era che la cassaforte di quell’area del partito. Che il “sistema” era il mullah insieme ad altri fedelissimi, che hanno già patteggiato, lo dimostra il fatto che tutti i funzionari dell’Urbanistica di Gallarate finiti sotto indagine sono stati assolti. Marta Cundari, dirigente del Comune, prima dell’avvio dell’inchiesta queste pressioni arrivò persino a denunciarle. Ma la denuncia fu archiviata e lei presentò un esposto anonimo che diede il via a parte dell’indagine.

L’assoluzione di Orrigoni

Uno dei grandi assolti di oggi è Paolo Orrigoni, l’ex patron di Tigros ed ex candidato sindaco di Varese per il centrodestra in quota Lega, per il quale l’accusa aveva chiesto una condanna a sei anni. L’assoluzione è arrivata con la formula più ampia possibile: perché il fatto non sussiste. Non ha retto l’accusa dei Pm milanesi secondo cui si sarebbe reso disponibile a pagare una tangente da 50mila euro a Caianiello per ottenere una Variante puntuale al Pgt in modo da poter realizzare in sei mesi un nuovo supermercato Tigros in via Cadore a Gallarate su un’area di proprietà dell’imprenditore Pier Tonetti. Ad accusare Mister Tigros sono stati Tonetti stesso, l’ex coordinatore cittadino di Forza Italia Alberto Bilardo e Caianiello stesso. Tutti e tre hanno patteggiato per la “stecca” che fu anticipata da Tonetti. Ma la difesa di Orrigoni è stata chiara e ritenuta credibile dai giudici: l’imprenditore non aveva bisogno di una variante al Pgt per quel supermercato e non ha retrocesso un euro a nessuno. I 50mila euro furono anticipati da Tonetti, che sarebbe stato il solo a guadagnarci (insieme al mullah e a Bilardo) perché avrebbe finalmente venduto un’area che cercava di piazzare da tempo accollando a Tigros gli oneri di urbanizzazione.
Con l’assoluzione di Orrigoni i giudici separano il vecchio dal nuovo. Le motivazioni della decisione saranno depositate in 90 giorni ma è evidente che, quanto meno, la chiamata in correità a carico di Tigros non è stata creduta. E, per il collegio, nemmeno provata.

La condanna di Comi

E se Orrigoni è il grande assolto, l’europarlamentare Lara Comi è la principale condannata (4 anni e 2 mesi come chiesto dall’accusa). E’ una sentenza di primo grado (quindi non definitiva) e il difensore dell’eurodeputata, l’avvocato Gian Piero Biancolella, ha già promesso battaglia in Appello. Anche Comi era legata a Caianiello: fu lui a dire in aula “a me Comi non poteva dire di no”. Giovanissima candidata tra le fila di Forza Italia era accusata di una truffa da mezzo milione di euro ai danni del Parlamento Europeo, legata ad una serie di incarichi affidati a persone di fiducia quali, ad esempio, la madre, che l’eurodeputato ha spiegato come gesto di ingenuità da parte sua ed errore commesso da altri. Va detto che Comi ha risarcito alla Ue i compensi non dovuti e che un’assicurazione ha risarcito lei; segno che l’errore non fu suo. L’accusa, tra l’altro, si prescriverà in gran parte tra pochi mesi: la procura stessa non ha insistito sul punto.

Lo “stipendio” di Caianiello

Restano, però, a carico dell’eurodeputata due episodi sempre individuabili nell’ambito della corruzione. Ed è Comi a tenere in gioco gli altri coimputati. O tutti assolti, oppure, come accaduto oggi, tutti condannati. E sempre rientra in gioco Caianiello. Nel primo caso, secondo l’accusa, Comi si accordò con l’allora coordinatore provinciale di Forza Italia Carmine Gorrasi (oggi condannato a 2 anni per quel fatto) ed un suo collaboratore (condannato a un anno e 4 mesi) per garantire uno “stipendio” al mullah, rimasto senza incarichi ufficiali a causa di una condanna a tre anni già passata in giudicato sempre per una mazzetta relativa a un altro supermercato da realizzare a Gallarate. L’ex plenipotenziario non poteva ricoprire alcun ruolo ufficiale ma, ufficiosamente, sedeva e contava sui tavoli della politica perché, parole sue, i politici gli chiedevano di farlo. L’accordo, sempre stando agli inquirenti, prevedeva un aumento dello stipendio al collaboratore di Comi (fatto di cui Gorrasi era al corrente) pagato con fondi Ue. Aumento che, poi, lo stesso collaboratore avrebbe dovuto retrocedere al “partito”.

Sempre Comi tiene in gioco altri due imputati: l’avvocato commercialista Maria Teresa Bergamaschi (condannata a sei mesi) e l’allora direttore generale di Afol, l’agenzia formativa di Regione Lombardia, Giuseppe Zingale (condannato a due anni). Bergamaschi è la conoscente e socia di Comi nella Premium Consulting che viene incaricata da Afol di preparare il personale all’apertura di uno sportello europeo per poi permettere ai Comuni di accedere ai fondi dell’Unione Europea. Secondo l’accusa Comi e Bergamaschi si sarebbero “ingegnate” per procurarsi una “provvista” da 10mila euro da versare a Zingale (si parlò di regalo di Natale) e Caianiello.
Il primo grado del processo Mensa dei poveri segnala che sì, un “sistema Gallarate” c’era ma era circoscritto ad una ristretta cerchia di politici. Saranno i giudici, nelle motivazioni, a spiegare le ragioni della decisione. Poi ci saranno gli Appelli: da parte delle difesa ma anche, per alcune posizioni, probabilmente anche da parte dell’accusa. Sino al terzo grado di giudizio, per molti dei principali protagonisti di “Mensa dei poveri” resta tutto aperto.

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